Antartide: intervista alla life explorer Chiara Montanari


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Antartide, Chiara Montanari ci è andata, più e più volte e ci racconta cosa ha visto e, soprattutto cosa ha fatto. Scopriamo attraverso le sue parole, cosa significa visitare l’Antartide. Ma, prima ancora…

Cosa significa, per lei, viaggiare?

Il viaggio è il simbolo per eccellenza del piacere della scoperta: visitare altri mondi è farsi stupire dai paesaggi inaspettati, farsi contaminare da nuovi modi di vivere. Non è necessario per forza spingersi in Antartide per incontrare nuovi mondi e nuove persone, basta leggere un libro o navigare in rete anche se si tratta di esperienze un po’ limitate: solo con tutto il corpo si può esplorare pienamente, sentendo gli odori dei luoghi e vivendone le vibrazioni dei suoni e dei colori. Ecco ciò che fa la differenza tra il turista e il viaggiatore.



Quando e come è nata la sua passione per l’Antartide?

Appena laureata con una tesi in ingegneria, avevo progettato un impianto di riscaldamento ad altissima efficienza che simulava le condizioni di una base in Antartide. L’organizzazione che si occupava delle basi di ricerca selezionò il mio progetto e decisero di realizzarlo. Da quando ho messo piede in Antartide soffro della nostalgia di tornarci: è la sindrome del “Mal d’Antartide”, simile al mal d’Africa.

La prima volta che ha messo piede in Antartide?

La prima volta non si può scordare: è una sensazione di vastità. L’Antartide è natura allo stato puro, hai la consapevolezza di essere “alla fine del mondo”. Quando sei in cima alla calotta polare, la sensazione è incredibile: davanti a te si estende un deserto di ghiaccio che si perde a vista d’occhio, per 360° c’è solo la linea dell’orizzonte. Sopra, sei abbracciato da un cielo azzurro elettrico, limpido e puro. Non ci sono odori, non ci sono rumori, non ci sono movimenti. Tutto è bianco, immobile e congelato, sembra quasi che anche il tempo si sia fermato. E’ un’esperienza di vuoto, quasi una meditazione!

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Quali sono le sue attuali attività in Antartide?

Ho svolto diversi ruoli, sono stata più volte a capo delle spedizioni italiane e poi a capo di missioni internazionali, come quelle francese e belga: da capo spedizione devi portare a termine la missione ed è una questione complessa. Ci sono molti progetti di ricerca da realizzare, le risorse sono limitate e devi farlo in poco tempo, in 3 mesi, da novembre a febbraio, il tempo di un’estate in Antartide. Ho paragonato questo ruolo all’essere il capitano di una nave di pirati che veleggia con il mare in tempesta, perché il team è variegato e la logistica molto complessa. Una base ha un aeroporto, un ospedale, una torre di controllo, molti laboratori e impianti di life-support sofisticati come per il sistema che ricicla le acque sviluppato con l’Agenzia Spaziale Europea. Inoltre, l’Antartide è il regno dell’incertezza e gli imprevisti e le potenziali situazioni di emergenza sono sempre in agguato.

Ad esempio?

Nel mio libro “Cronache dai Ghiacci: 90 giorni in Antartide” (Mondadori) racconto la mia ultima spedizione a Concordia, la base sul Plateau Antartico, il luogo più freddo del pianeta (a 50°C sottozero e un altitudine di 4000 m). E’ stata un’avventura straordinaria: siamo rimasti senza carburante perché una nave russa ha lanciato un SOS e tutta la nostra pianificazione è stata stravolta. Ciò ha generato ulteriori dinamiche umane all’interno del nostro piccolo mondo, già di per sé caratterizzato da situazioni estreme: spazi piccoli, convivenza forzata, team multiculturale e multidisciplinare, disparità di genere (6 donne e 60 uomini) e molti progetti in un ambiente totalmente isolato e difficile.

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Cosa ha di particolare l’edificio in Antartide Princes Elizabeth?

E’ interamente alimentato da energie rinnovabili, è il primo a emissioni zero dell’Antartide. Come per le basi spaziali, la complessità dei suoi impianti la rende molto delicata in situazioni di emergenza. Anche in questa base ero a capo della missione ed è stata forse la più difficile della mia vita: al nostro arrivo abbiamo trovato la base sabotata e saccheggiata. E’ stata una vicenda molto seguita in Belgio e ha tenuto l’opinione pubblica con il fiato sospeso fino alla fine. E’ stata dura, ma alla fine siamo riusciti a portare a termine una missione di 4 mesi ottenendo anche successi scientifici interessanti. Quando saranno finiti i processi legali, magari racconterò anche questa storia in un libro.

Parla di ambiente esterno, di Antartide, come metafora del mondo in cui viviamo, in che senso?

Il mondo contemporaneo è sempre più complesso, incerto e caratterizzato dal cambiamento continuo. Ci troviamo ad affrontarlo senza una vera preparazione, perché i nostri sistemi educativi sono stati sviluppati per un periodo storico molto più stabile. Nelle situazioni “ad alta tensione” in un ambiente estremo si sviluppa una maggiore capacità strategica, molta flessibilità e una mente che aiuta a diventare resilienti. Oggi infatti collaboro con il Centro di Epistemologia e Antropologia della Complessità di Bergamo in cui mi occupando di aiutare le persone e le organizzazioni a sviluppare queste caratteristiche.

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Nella pratica di cosa si tratta?

Di imparare a reagire in modo efficace nelle situazioni critiche, invece che subirle, e a generare benessere interno invece che stress. Il metodo che abbiamo sviluppato si è dimostrato molto efficace anche nel caso della mia ultima avventura alla base belga (dove, tra l’altro, ero l’unica donna) ed ho ricevuto un riconoscimento dal governo belga e dall’ambasciata italiana in Belgio. A parte le soddisfazioni personali, credo che aiutare le persone a sviluppare queste competenze sia molto utile per il nostro futuro. Per questo partecipo spesso a corsi e workshop anche sull’innovazione e le start-up, parlando oltre che di Mindset nell’incertezza anche di leadership, perché credo che un grande tema oggi sia anche la capacità di un leader di far funzionare bene i talenti del suo team articolandoli nelle situazioni che affrontano.

Per conoscere meglio Chiara Montanari, visitate il suo sito

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Pubblicato da Marta Abbà il 12 Novembre 2016